Un anno orribile, caratterizzato dagli infiniti lockdown e dal Covid, dalla stagione calcistica più lunga e più temprante di sempre: così sarà ricordato il 2020 da tutti coloro che lo hanno vissuto. Da tutti fuorché da Robert Lewandowski che, dopo aver raggiunto le vette delle classifiche mondiali, scrive al calcio una bellissima lettera d’amore. L’attaccante del Bayern Monaco è infatti riuscito a sollevare il premio di miglior calciatore al mondo, dopo aver vinto la Champions League e la Bundesliga con la maglia dei bavaresi.
Il Pallone d’Oro 2020 non è stato assegnato ma il polacco è stato premiato comunque per essere diventato il giocatore più forte del pianeta. Lewandowski ha deciso dunque di affidarsi a The Players’ Tribune per indirizzare l’epistola allo sport che lo ha cresciuto e lo ha fatto diventare grande. In questa missiva il nativo di Varsavia ha ripercorso tutta la propria carriera, sottolineando l’importanza di tre particolari avvenimenti; eventi che gli hanno fatto capire come la sua vita e la sua esistenza siano riuscite a svoltare.
La comunione, il rifiuto, la scommessa: Lewandowski scrive al calcio
Lewandowski scrive al calcio per ringraziarlo, per parlare con il padre scomparso, per confidarsi con qualcuno che lo conosca intimamente, per far comprendere a chiunque che è necessario credere fino in fondo in quel che si fa.
La lettera si apre con il ragazzo polacco che osserva il premio, di miglior giocatore, appena conquistato: “Hai presente quando ti svegli da una bella dormita e tutto sembra ancora un sogno? (…) Avevo un ricordo confuso di una cerimonia e di aver ricevuto un premio. Ma sembrava troppo bizzarro per essere vero. Poi ho afferrato questa cosa e ho pensato: “Wow, non era un sogno. Quello era reale. Ti hanno nominato il miglior calciatore del mondo. E hai portato il trofeo con te a letto!”
Il 9 del Bayern Monaco ha subito lasciato vagare i pensieri sino alla propria infanzia, difficile per qualsiasi bambino chiamato a vivere in Polonia l’età più tenera. Nella terra delle “aquile bianche”, infatti, si è obbligati a subire tragicamente un grave complesso d’inferiorità: “I bambini polacchi non dovrebbero essere i migliori al mondo. Lasciate che vi spieghi qualcosa sui polacchi, e allora forse capirete. Prima della cerimonia, sapevo di aver disputato un’ottima stagione con il Bayern Monaco. Sapevo di poter vincere il premio. Forse me lo sono anche meritato. Ma in Polonia abbiamo questo complesso di inferiorità. Non abbiamo mai avuto nessun giocatore nominato come migliore al mondo. Quando sei un bambino, non hai superstar da seguire. Gli scout dicono sempre cose come: “È piuttosto abile… per essere un bambino polacco”. Quindi abbiamo la sensazione che nessuno sia mai abbastanza bravo, che nessuno di noi riuscirà mai ad arrivare in cima”.
Proprio a causa di queste difficoltà, lo stesso calciatore non riesce a credere a tutto quello che negli anni è riuscito a costruire. Una rincorsa partita da molto lontano, un cammino impervio e non privo di alti ostacoli. Al suo fianco, però, ha avuto persone forti (il padre, la madre e la moglie) che gli hanno fatto comprendere quanto valore avesse davvero. Queste lo hanno spinto poi a migliorarsi e a non mollare, lo hanno aiutato ad arrivare sul tetto del mondo.
La comunione e le figure genitoriali
Per Lewandowski il padre ha sempre avuto grande significato, non solo come educatore ma anche come confidente. Per farci capire l’importanza di questa figura, ci vengono esposti gli eventi prossimi alla prima comunione del ragazzo: “Questo è un giorno davvero speciale. Inizia con la messa in chiesa e poi festeggiamo con le nostre famiglie. Il problema era che avevo una partita tre ore dopo la messa ed era davvero lontana.
Quindi, prima della celebrazione, mio padre Krzysztof ha fatto una breve chiacchierata con il prete. Era nella mia città natale, Leszno, e mio padre conosceva tutti. Disse: “Ascolti, padre, forse potremmo iniziare questa cosa mezz’ora prima? E forse tagliare gli ultimi 10 minuti? Mio figlio ha una partita.” Forse suona un po’ folle, ma in realtà il prete mi conosceva così bene che ci ha pensato un attimo e poi ha detto: “Eh, certo, perché no? Sappiamo quanto ama il calcio. Saremo veloci”.
L’amore dei coniugi Lewandowski va oltre ogni cosa e, a chiunque chiedesse loro la ragione dei folli viaggi compiuti per portare il figlio a giocare, loro rispondono con la propria verità. “Non hanno mai detto che volevano che il loro bambino diventasse professionista. Invece credo che abbiano riposto che era perché Robert aveva un sogno e adorava questo gioco. Non è mai stato come: “Oh, dobbiamo fare tutto per Robert in modo che diventi professionista e raggiunga la vetta e diventeremo ricchi.” Mai”. Inoltre i genitori dicevano al ragazzo: “Anche quando ero giovane, c’erano già alcune persone che credevano che fossi troppo piccolo e magro per farcela. Haters, come dicono i ragazzi adesso. Ma i miei genitori mi incoraggiavano sempre a pensare con la mia testa, a ignorare quello che dicevano gli altri”.
Il rifiuto e la grande delusione
A 16 anni Lewandowski perde il padre, malato già da alcuni anni. Robert qui ci confida quanto quest’avvenimento sia stato difficile da metabolizzare, quanto ancora oggi sia difficile da comprendere, nonostante le soddisfazioni che il calcio gli ha donato. “Quando sei un ragazzo, ci sono alcune cose di cui puoi parlare solo con tuo padre. Cose su come crescere e diventare un uomo. Dopo la sua morte ho spesso voluto parlargli di queste cose. Ci sono state così tante volte che avrei voluto chiamarlo al telefono. Anche per 10 minuti, ma non ho potuto. Mia madre ha cercato di aiutarmi il più possibile e ho molto rispetto per quello che ha fatto per me. Doveva essere sia una madre che un padre“.
Il futuro bomber milita nella terza serie polacca, nella seconda squadra del Legia Varsavia. A causa di un infortunio, però, il Club decide di non rinnovargli il contratto e scientemente lo lascia senza un’occupazione. Logicamente, a Robert crolla il mondo addosso: dopo il padre se ne sta andando anche il suo più grande sogno.
E’ la madre l’ancora di salvezza del figlio. Quest’ultima contatta una formazione rivale del Legia, lo Znicz Pruszkow, e dona una nuova opportunità al giovane bomber: “Sono andato lì e ho iniziato la mia guarigione, all’inizio non potevo nemmeno correre correttamente. Una delle mie gambe restava indietro rispetto all’altra, come se avessi un blocco di cemento intorno alla caviglia. Sembrava comico, sapete? Immaginate se avessi ascoltato gli “haters”. Forse quell’infortunio mi avrebbe fermato. Pensateci: i grandi talenti giocavano già per club come Bayern, Barça e Manchester United. Ed eccomi qui nella terza divisione polacca, cercando di ricordare come correre. Di sicuro ho imparato molto da tutta l’incertezza e la miseria. Ho dovuto lavorare molto sulla mia fiducia”.
La scommessa chiamata Borussia Dortmund
Lewandowski decide quindi di andare “all-in”, come solo un giocatore di poker sa fare. Per un paese come la Polonia, la vicina terra tedesca è vista quasi come un sogno, un’opportunità da cogliere al volo e da non farsi sfuggire.
Fin da subito il centravanti cerca di ambientarsi ma la paura d’aver fatto il passo più lungo della gamba è tanta: “Onestamente, è stata così dura. Quando sono arrivato riuscivo a malapena a parlare una parola di tedesco. Conoscevo Danke (grazie). Sapevo dire scheisse. Il tempo era piovoso e grigio e con Klopp l’intensità dell’allenamento era molto, molto alta. Volevo disperatamente lasciare il segno e Jürgen voleva sfidarmi. Quindi nei primi mesi abbiamo fatto una piccola scommessa: se avessi fatto 10 gol in un allenamento mi avrebbe dato 50 euro; se non li avessi segnati gli avrei dato io 50 euro. Le prime settimane ho dovuto quasi sempre pagare”.
Poco alla volta Jurgen Klopp concede spazio e minuti a quel giovane ragazzo venuto dall’est. Lewandowski non lo delude ma, anzi, ingrana e non smette più di gonfiare le reti avversarie. Inoltre, non perde più le scommesse con il proprio mentore, definito così proprio dalle parole dell’autore della lettera: “All’epoca non ci pensavo ma ora mi rendo conto che la mia conversazione con Jürgen era come una di quelle che avrei voluto avere con mio padre. Uno di quelli che non potevo avere da molti, molti anni. Potrei parlare con Jürgen di qualsiasi cosa. Potevo fidarmi di lui. È un padre di famiglia e ha così tanta empatia per ciò che accade nella tua vita privata.
Jürgen non era solo una figura paterna per me: come allenatore era come il “cattivo” insegnante, e lo dico nel senso migliore della parola. Quale insegnante ricordate di più? Non quello che ti ha reso la vita facile e non si è mai aspettato nulla da te. No. Ricordate il “cattivo” insegnante, quello che era severo, quello che ti ha messo sotto pressione e ha fatto di tutto per ottenere il meglio da te. È l’insegnante che ti ha reso migliore e Jürgen era così: non si accontentava di farti diventare uno studente di serie B, Jürgen voleva studenti da serie A. Non lo voleva per lui, lo voleva per te. Jürgen non ha mai dimenticato che prima eravamo uomini e poi calciatori”.
Non si può sopravvivere da soli
Il padre, la madre, gli allenatori che lo hanno seguito durante l’arco della sua carriera. Lewandowski non può che essere l’esempio lampante di quanto, chi ci sta accanto, sia importante per la nostra stabilità emotiva, per una crescita professionale ed interiore. E’ proprio il giocatore che racconta d’aver accanto a sé anche una grande e forte donna, una compagna di vita: la moglie Anna, conosciuta ai tempi dell’università. I due hanno infatti studiato nutrizione ed educazione fisica, nel 2013 hanno deciso di sposarsi e nel 2017 hanno dato alla luce la figlia Klara.
La ragazza, racconta lo sportivo, lo ha aiutato a migliorare l’approccio mentale al gioco ed al cibo. E’ proprio il 9 che confida: “Ancora una volta ho capito qualcosa che avrei voluto insegnassero a tutti i giovani calciatori: ogni volta che metti a nudo i tuoi problemi invece di nasconderli, diventano immediatamente più facili da risolvere. È stato un grande passo avanti nella mia crescita come calciatore e come essere umano”.
Questa massima comportamentale non è applicabile al solo sport agonistico ma ad ogni ambito della vita umana. E’ difficile mettersi a nudo, complicato sviscerare i problemi che ci affliggono per potersi migliorare. Ecco perché, trovare qualcuno che ci capisca, che ci ami riuscendo ad andare oltre la corazza difensiva che costruiamo, è di fondamentale importanza. Anche il goleador polacco ne è consapevole: “Non vinci mai titoli da solo. Tutti i trofei che ho tenuto in mano, o portati a letto con me, sono stati vinti da tutti i compagni di squadra che mi hanno aiutato a stare meglio. Includerei anche i miei amici d’infanzia, i miei allenatori, mia sorella, il prete che mi ha fatto lasciare presto la mia comunione; Mia madre, che era lì per me quando ero al punto più basso e, naturalmente, mio padre“.
La chiusura della lettera è poi dedicata alla figura che dal cielo sta guidando e tifando incessantemente per il miglior calciatore del mondo: il padre Krzysztof. Un uomo buono, dipartito prematuramente ma che alberga costantemente nel cuore di Robert, come solo un genitore sa fare.
“Non è mai vissuto abbastanza per vedermi diventare un calciatore professionista, anche se mi piace pensare che ora stia guardando tutte le mie partite da un posto più alto, dal miglior posto in casa. È stato lui a mettere la palla ai miei piedi e che non mi ha mai fatto dimenticare perché giocavo a calcio. Non per i trofei, né per soldi, né per gloria. No. Giochiamo perché lo adoriamo. Grazie papà“.
Lewandowski scrive al calcio per ringraziarlo
Tante volte i tifosi si chiedono chi siano davvero i propri idoli. Oggi, avere la testimonianza diretta di un campione indiscusso apre ancor di più la strada all’avvicinamento di due mondi solo apparentemente distanti (quello di chi osserva e quello di chi “pratica”).
Innalzare i calciatori sopra ad un piedistallo e pensare che essi siano sempre felici per tutto quel che li circonda è errato. Questo è ciò che li rende, erroneamente, estranei dalla realtà che tutti siamo invece chiamati a vivere. Il giocatore non è altro che un ragazzo, o un uomo, normalissimo, con un grande talento dentro di sé. Una dote, non solo quella sportiva, che però va coltivata, esercitata, cullata ma, prima di tutto, amata. Solo in un secondo tempo si possono trarre dei benefici: solo in seguito ad un’attesa calma e paziente.
Analizzando nel dettaglio la vita di molti uomini di sport, molto spesso possiamo constatare come essi abbiano avuto un’infanzia difficile, come abbiano sofferto mancanze e delusioni tanto cocenti. Tutti questi ostacoli stopperebbero la crescita di un giovane qualunque, non di chi è disposto a tutto pur di realizzare un sogno, di mantenere una promessa fatta. Da un lato, quindi, una forza fuori dal comune, una grande volontà di spirito; dall’altro anche il fatto di non aver a disposizione, facilmente e dinnanzi a sé, tutto quel che si desidera.
Verrebbe da dire che la “comfort zone” sia quello status che tutti sognano di raggiungere ma che, questa, sia anche la condizione che nessuno dovrebbe intimamente augurarsi di conquistare. Il pericolo di mettersi a sedere e di accontentarsi di ciò che si possiede è grande. Diverso invece lo scenario che si prospetta di fronte a chi è chiamato a superare sfide: sono proprio le difficoltà quelle opposizioni che spingono a non accontentarsi; sono gli intralci quelli che obbligano a dare di più; sono gli intoppi quelli che aiutano a non fermarsi, magari ad un solo passo di distanza dalla realizzazione di un immenso desiderio.